nessuno più incapace di mancar verso loro di giustizia, o di dovuti riguardi, o di benignità”. Parole nelle quali si trova delineato, manifestamente, il ritratto dell'educatore secondo il sistema “preventivo”. Premesso che “per esperto, per attento, per virtuoso che sia il direttore d'un pubblico istituto, ove il numero degli alunni superi quello d'una discreta famiglia egli non è di loro, né potrebb'essere usualmente l'educatore immediato”, Ne concludeva che, dunque “chi può sopra loro, chi li volge al bene od al male, è quegli principalmente che è lor dappresso, che convive dì e notte con loro, ch'è l'indivisibile loro compagno; si chiami egli prefetto o decurione o soprastante o maestro, o checché altro si voglia: è quegli pertanto che ne ha pochi in cura; e che con quei pochi può quello fare che un padre fa coi figlioli”. E allora proponeva che una casa d'educazione fosse composta da tanti piccoli gruppi di scolari, ognuno sotto la guida di un istitutore, che facesse loro da “vice-padre”. Così il sistema preventivo, e in D. Bosco e nel Lambruschini porta alle stesse conseguenze: formare una comunità di educatori che riprenda la tradizione gloriosa delle grandi congregazioni insegnanti. [...] Ma su un altro punto importantissimo il pensiero del Lambruschini corrisponde a quello di D. Bosco, a tal segno, da parere che il trattato Della educazione illustri in anticipo l'esperienza pedagogica salesiana. Vogliamo proprio parlare del punto più popolare e più noto del sistema preventivo: l'abolizione, o, almeno, la riduzione ai minimi termini dei castighi; elemento, invece, essenzialissimo nel sistema repressivo. [...] “Questo sistema... esclude ogni castigo violento e cerca di tenere lontano gli stessi leggeri castighi”, scriverà D. Bosco. Ora, quanto ai castighi violenti, il Lambruschini si era già espresso con parole molto forti, condannando esplicitamente, non solo le battiture, ma anche le pene umilianti (cartelloni, orecchie d'asino, ecc.), la segregazione e le privazioni troppo affliggenti, come il vitto a pane ed acqua. “Può darsi però il caso che qualche alunno, pur senza giungere all'estremo d'una malattia morale gravissima e quasi irreparabile, abbia un carattere poco felice, o guastato da una incerta e debole educazione. “Ma sventuratamente vi ha tra fanciulli de' caratteri per loro natura protervi; vi ha molto più spesso de' fanciulli che nell'infanzia o per troppa debolezza contentati in tutto, o mal a proposito contraddetti e irritati, si levano altieri ad ogni atto di autorità; e né per consiglio, né per ragionamento, né per rimprovero, né per minaccia, né per preghiera si indurrebbero mai a rinunziare alla loro volontà”. Che fare con questi allievi? E' possibile rinunziare del tutto ai castighi? No; e questo non voleva nemmeno D. Bosco. Il quale pure osservava che i “giovanotti sogliono manifestare uno di questi caratteri diversi. Indole buona, ordinaria, difficile, cattiva” e mentre riconosceva che cogli allievi delle prime due specie basta la sorveglianza, rafforzata da esortazioni e consigli, per la terza e la quarta categoria prevedeva necessari i castighi, (“qualora si dovesse a costoro fare un biasimo, dare avvisi o correzioni, non si faccia mai in presenza dei compagni”) pur escludendo da questi le pene troppo afflittive, materiali od infamanti. Insomma, e in D. Bosco e nel Lambruschini troviamo, non già l'esclusione assoluta dei castighi (se qualche espressione di D. Bosco fa pensare a questo, si è perché molto spesso per “castighi” egli intende solo quelli corporali o infamanti allora molto in uso, e perciò parla della loro eliminazione), quanto piuttosto il loro uso parco e moderatissimo, o, se si preferisce, la loro riduzione da funzione normale e costante dell'attività educativa, a funzione straordinaria ed eccezionale qual è, sul terreno fisiologico, la funzione delle medicine. Come al solito, D. Bosco condensa le sue idee in poche norme pratiche: il Lambruschini le svolge attraverso un lungo procedimento analitico. Così, dove l’uno parla in generale delle varie indoli che possono presentare i ragazzi, o accenna rapidamente ai castighi esclusi e a quelli ammessi; l'altro fa una lunghissima e minuziosa ricerca sulla necessità, utilità, qualità, misura e modi dei castighi medesimi.
In fondo, tolte le battiture e le pene troppo afflittive ed umilianti restano ammissibili, tanto per D. Bosco come per il Lambruschini, i seguenti castighi: 1. il biasimo, il rimprovero, l'esortazione dell'educatore in tutte le forme possibili; 2. le privazioni leggere, ivi compresa quella della libertà: come ad es. l'allontanamento dai compagni; 3. le usuali sanzioni della vita scolastica, come i cattivi punti. [...] Le punizioni si dovrebbero ridurre a meri provvedimenti di precauzione e di buon ordine: separare un ragazzo dall'altro; costringerlo per un momento alla quiete; mandarlo tutt'al più allo stanzino di riflessione. Si può, in caso di recidiva, dar un'ammonizione solenne; ma bisogna badare bene di non affogare nel colpevole il pudore e il coraggio, mentre si deve all'opposto far di tutto per isvegliarli”. (33) E' lo stesso concetto espresso da D. Bosco nel paragrafo: Una parola sui castighi. “Che regola tenere nell'infliggere castighi? Dove è possibile, non si faccia mai uso dei castighi; dove la necessità chiede repressione, si ritenga quanto segue: L'educatore tra gli allievi cerchi di farsi amare, se vuole farsi temere”. Il Girard, infatti, si esprimeva così: “Ed io Vorrei che egli [l'educatore] si valesse meno del biasimo che della lode; e che imitando il Salvatore, facesse risaltare più il bene che il male, e con una parola d'incoraggiamento rendesse appunto il bene trionfatore del male nell'animo dei fanciulli che mancano”. Questa preferenza alla lode piuttosto che al biasimo, al premio piuttosto che al castigo, accomuna il Girard a D. Bosco, e li distingue ambedue dal Lambruschini, il quale chiamava i premi “meno ingrato argomento” (35) dei castighi, ma “non del tutto piacevole” nemmeno questo. Per contro, D. Bosco pareva tenesse presenti proprio le parole ora citate dal Girard, quando, a proposito dei fanciulli che mostrano un'indole “ordinaria”, diceva: “Bisogna incoraggiarli al lavoro, anche con piccoli premi e dimostrando di avere grande fiducia in loro”. In fondo, quando D. Bosco osserva che coi fanciulli e castigo quello che si fa servire, di castigo, egli si mette, insieme col Lambruschini, al centro della pedagogia moderna. Enuncia, cioè, quel criterio di “proporzione” fra colpa e pena che nella pedagogia moderna aveva, attraverso la Nerker, la Edgeworth, il Girard, gradatamente sostituito e corretto il sistema delle conseguenze naturali escogitato dal Rousseau. Grave inconveniente del castigo è quello d'irritare la volontà dell'educando, spingendola così in senso proprio opposto a quello desiderato dall'educatore. Tutti d'accordo su questo punto i pedagogisti moderni, dal Rousseau, anzi, dal Locke in poi: “... i giovanotti non dimenticano i castighi subiti, e per lo più conservano amarezza con desiderio di scuotere il giogo ed anche di farne vendetta” osserverà D. Bosco.
Tratto da: Lettere Pedagogiche Anno 2 nomero 1